Tratto da Lutto proibito: il dolore taciuto dell'aborto
di Theresa Burke, Ph.D.
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Capitolo 4: La storia di Maura
Un tempo per piangere, un tempo per guarire
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Maura entrò in terapia per depressione e ansia.
All’età di 32 anni, lottava contro il cancro da quattro
anni.
I suoi occhi, gonfi per le lacrime, apparivano permanentemente
arrossati per la profonda sofferenza, il dolore e la perdita. I
trattamenti di chemioterapia e radioterapia avevano richiesto un
pesante tributo. La superficie liscia del suo capo calvo luccicava
sotto la lampada posizionata accanto alla sua sedia. Attraverso la
pelle traslucida che copriva il suo cranio, riuscivo a distinguere vene
e arterie sotto la pelle. Sopra i suoi occhi tristi, c’era uno
spazio vuoto, laddove un tempo le sue sopracciglia si erano posizionate
sopra le palpebre. Il suo volto sembrava quello di una creatura aliena.
Feci fatica ad andare oltre l’aspetto esteriore e a immedesimarmi
in lei come amica… come donna.
“Com’era prima di ammalarsi di cancro?” le chiesi.
Maura sembrò elettrizzata e ansiosa di raccontare i suoi
ricordi. Appresi che era stata una ragazza attiva ed esuberante, che
aveva poco bisogno di essere persuasa per mettersi in mostra davanti
alle persone e intrattenerle con battute, storie e canzoni. Prima della
chemioterapia, lunghi riccioli di capelli neri le scendevano giù
dietro le spalle. Era stata una ragazza amata da tutti e molti uomini
avevano cercato di conquistare il suo cuore. Ora, in quella che era una
caricatura della donna che era stata un tempo, Maura sedeva davanti a
me e lottava contro la paura del dolore e della morte.
Nelle sessioni di terapia, la sua vita continuò a svelarsi di
fronte a me, come un interessante arazzo ricco di colori vivaci seguiti
da sfumature di nero cupo e di blu scuro. Maura ripensò a come
fosse abituata ad allontanare i bravi uomini e a come si lanciasse in
avventure piccanti con i poco di buono. Apparve confusa da questo
ripetersi e ansiosa di comprendere se stessa.
Accennò ad un aborto, poi passò velocemente
all’evento successivo. Mi accorsi delle intense occhiate che mi
riservava per studiare la mia reazione e notai anche che i suoi occhi
si erano nuovamente riempiti di lacrime. Il mio cuore era pieno di
compassione e riconobbi quanto quella decisione doveva essere stata
difficile.
“Com’è stato l’aborto per lei?”, le chiesi.
La barriera difensiva crollò, mentre Maura scoppiò in
lacrime. Non poteva più permettersi il lusso di fuggire da
questo dolore. La sua malattia l’aveva privata di ogni sorta di
negazione o forma di autodifesa che solitamente porta a rimuovere
l’evento. Maura mi disse che ero la prima e l’unica di
molti psicoterapeuti ad averle mai fatto questa domanda. Finalmente si
sentiva incredibilmente sollevata all’idea di avere la
possibilità di parlarne.
Dopo l’aborto, la ben conosciuta vergogna e la segretezza vissute
da molte altre persone come lei, avevano reso Maura una vittima. Era
sempre riuscita ad evitare di sollevare il coperchio del vaso di
Pandora. Ma ora, di fronte alla minaccia della morte, Maura non era
più in grado di tenere chiuso quel vaso. Il suo contenuto
alimentava paure eccessive, che erano diventate talmente terribili da
indurla a dormire tutte le notti nella camera dei suoi genitori.
Provava una tremenda paura di rimanere da sola nell’ora del
trapasso. Maura era terrorizzata dal giudizio divino.
Le misi la mano sulla spalla e l’assicurai che non sarebbe stata
sola. Insieme avremmo esplorato il tessuto nascosto della sua vita e
avremmo portato alla luce il suo segreto. Con grande delicatezza
tornammo dolcemente all’argomento aborto e Maura iniziò a
manifestare alcune delle emozioni represse da tempo: rabbia, vergogna,
abbandono, senso di colpa e disperazione.
NON MERITO DI VIVERE
Quella sera Maura confessò l’aborto a sua madre.
Sputò fuori l’intera sequenza di eventi che le erano
capitati dieci anni prima, come se fossero appena accaduti. Sua madre
si sentì devastata al pensiero che sua figlia aveva sopportato
da sola un simile dolore per così tanti anni e piansero insieme.
Maura era assolutamente convinta che Dio le avesse
“mandato” il cancro per via del suo aborto. Era sicura che
il cancro fosse la punizione che meritava.
“Dio non opera in questo modo”, tentò di
rassicurarla sua madre. Ma tutte le rassicurazioni non avevano alcun
senso per Maura.
“Io non merito di vivere”, disse. “Perché dovrei vivere quando mio figlio non è vissuto?”
Maura manifestava una sorta di senso di colpa del sopravvissuto. Era
convinta di aver sbagliato e nonostante la promessa che Dio comprendeva
e poteva perdonarla, provava un senso di disperazione, lutto e
disperazione rispetto a una vita che non sentiva di meritare di vivere.
Senza dubbio il perdono rappresenta il pilastro di tutte le religioni
giudaico-cristiane. Nonostante i patriarchi del Vecchio Testamento
siano ripetutamente caduti in gravi errori, la Torah parla
dell’amore infinito di Dio per il suo popolo prescelto. Il
messaggio della misericordia divina è al centro della vita e
degli insegnamenti di Gesù e il fondamento di tutte le religioni
cristiane. Persino le religioni orientali pongono l’accento sulla
necessità dell’armonia interiore. In un senso ampio, tutte
le religioni insegnano che l’obiettivo del nostro cammino
spirituale è riconciliarci con il nostro passato e trovare la
pace. Ma il senso di colpa e vergogna di Maura erano più forti
di qualsiasi affermazione della misericordia e compassione di Dio. La
sua mancanza di pace interiore dopo l’aborto, appariva ancora
piuttosto evidente.
Il legame tra lo stress e molte malattie, come attacchi cardiaci e
cancro, è stato ben documentato. Sebbene il cancro non sia una
punizione mandata da Dio, non possiamo sottovalutare il ruolo che lo
stress e alcuni comportamenti nocivi di Maura dopo l’aborto,
hanno giocato nell’alterare il suo sistema immunitario.
Dopo l’aborto, Maura iniziò a bere molto. Il suo regime
alimentare era insufficiente, nella migliore delle ipotesi. Tra
l’alcol e una vita frenetica, il suo corpo iniziò a subire
un tracollo. Tuttavia, è molto significativo in questo caso il
fatto che quando Maura scoprì una lesione (che si rivelò
essere cancerosa) attese un anno prima di consultare un medico.
Ciò indica in modo chiaro una mancanza di cura di sé, che
può essere ricollegata a una bassa autostima e molto
probabilmente a un desiderio inconscio di punizione.
Maura era anche convinta che se avesse messo al
mondo un bambino, avrebbe cambiato il proprio stile di vita. Sarebbe
stata costretta a occuparsi di se stessa in modo più attento,
perché suo figlio avrebbe avuto bisogno di lei.
Sebbene concentrarsi troppo su tali idee possa far
impazzire una persona, questi pensieri erano molto reali per Maura. Si
torturava pensando in modo ossessivo alle varie cose che avrebbe potuto
fare per impedire al cancro di depredarle la vita. Dal momento che era
impossibile annullare il passato, ci concentrammo a guarire il
presente. Nel caso di Maura, per avvicinarsi serenamente alla morte,
era imperativo riconciliarsi con il passato.
UN ANGELO DI NOME “JOEY”
Maura aveva identificato la sua perdita. Ora poteva iniziare quel
“lavoro sul lutto” che non era mai stata in grado di
affrontare.
Il mese seguente, Maura partecipò a un ritiro
spirituale di guarigione post-aborto con La Vigna di Rachele. Era grata
per l’esperienza che l’avrebbe portata a incontrare altre
persone che condividevano sentimenti di dolore analoghi. Tra tutte le
partecipanti s’instaurò un sentimento di sorellanza,
mentre venivano accantonate le tediose ideologie della
“scelta” e della libertà riproduttiva, e veniva
messo da parte lo stoicismo, per vivere un weekend di condivisione
dell’anima, privo di pretese e finzione.
Maura invitò la sua famiglia a partecipare
alla funzione commemorativa, durante la quale onorò il figlio
abortito. La sua famiglia non aveva avuto la possibilità di
offrirle alcun sostegno durante la crisi della gravidanza perché
Maura l’aveva tenuta ben segreta. Tuttavia, voleva che i suoi
familiari fossero presenti, mentre cercava di riconciliarsi con
l’aborto. Era stanca dei segreti e non aveva né il tempo
né le energie da dedicargli.
Queste funzioni commemorative sono sempre
emotivamente coinvolgenti. La bellezza della famiglia di Maura che si
raccoglieva con lei nel dolore fu una cosa che non dimenticherò
mai. I suoi cinque fratelli parteciparono alla funzione e piansero
insieme alla propria sorella. Anche suo padre e sua madre
l’accompagnarono e parteciparono al suo dolore di fronte alla
perdita del nipote. Finalmente, l’isolamento di Maura era stato
spezzato. Non era più sola.
Quel weekend, Maura si riconciliò con il
Creatore e con se stessa per l’aborto vissuto. Chiamò suo
figlio “Joey” e lo immaginò come un angioletto che
ora veniva a offrirle pace e perdono.
In seguito al ritiro, non si sentì più
costretta a dormire con i suoi genitori. Quando abbracciò in
spirito e amore il ricordo del suo bambino, si liberò di
un’incredibile quantità di ansia.
Quando andai a far visita a Maura dopo
l’operazione per via di un altro tumore, il medico mi disse che
le restava soltanto qualche settimana di vita. I suoi tumori crescevano
in modo aggressivo e solo frequenti dosi di morfina erano in grado di
alleviare la sua sofferenza.
Maura aveva combattuto una lunga e coraggiosa
battaglia contro il cancro. Ma la consapevolezza che Dio la amava e
l’aveva perdonata e che nella morte si sarebbe unita in spirito
con il suo dolce bimbo Joey, con il quale non vedeva l’ora di
ricongiungersi, placavano la sua paura di morire.
La bellezza di questa riconciliazione mi
tornò in mente quando partecipai al suo funerale. Accanto alla
bara, guardai Maura amorevolmente. Appariva così bella e in
pace. I suoi capelli erano cresciuti di circa cinque centimetri da
quando aveva terminato i cicli di chemioterapia. Le passai le dita tra
i capelli e le sfiorai dolcemente la guancia. Aveva le labbra
sigillate, labbra che non avrebbero mai parlato del mistero del
trapasso. Provavo un grande affetto per Maura. Avevamo oltrepassato i
confini del rapporto psicoterapeuta-paziente, mentre la sua anima
iniziava a librarsi verso una morte imminente.
Mentre singhiozzavo sulla bara di Maura, ricordai il
momento in cui le tenevo la mano mentre lei piangeva alla funzione
commemorativa per il figlio perduto con l’aborto. La pace che
seguì quella manifestazione di lutto, e la sua capacità
di condividere quel dolore con la propria famiglia e vederlo
riconosciuto con dignità e rispetto, furono fonte
d’ispirazione.
Mi chinai a baciare la sua fronte, nel fragile
tentativo di comunicarle il mio ultimo addio. Sebbene il mio cuore si
stringesse di dolore di fronte a una così bella vita interrotta,
la mia fede mi donava la speranza di saperla riunita con suo figlio e
felicemente accolta da un Dio misericordioso che la amava. Nonostante
la mia convinzione, provai dolore.
Mentre mi trovavo in fila per porgere le mie
condoglianze, mi sentii parte integrante della famiglia di Maura,
sebbene la conoscessi solo da pochi mesi. Gli abbracci forti e sinceri
che avevo ricevuto mi trasmisero una tacita consapevolezza del sacro
viaggio durante il quale avevo accompagnato la loro figlia e sorella.
Maura sarebbe mancata a tutti noi.
L’accompagnamento nell’elaborazione del
lutto mi ha insegnato a non vergognarmi del mio dolore. Ero il tipo di
persona che evitava i funerali. Quando vedevo qualcuno piangere, questo
faceva scattare in me il cordoglio e la paura di perdere qualcuno che
io amavo. Temevo che il mio naso diventasse rosso a forza di piangere o
che il mio mascara si sbaffasse. Volevo apparire bella e in ordine e
avere la situazione sotto controllo. Eppure, c’è
qualcosa di molto liberatorio nel permettere a se stessi di provare la
tristezza ed esprimerla invece di reprimerla e spingerla giù nel
profondo.
L’espressione e l’elaborazione del lutto
possono essere guaritivi. Essi sono il segno della vita e dei
sentimenti condivisi con gli altri. Rappresentano la nostra
vulnerabilità, la nostra umanità. Quando ricordiamo e
piangiamo le nostre perdite, liberiamo la nostra anima permettendole di
andare oltre il dolore. È questo lo scopo dei funerali. Per
quanto siano difficili, ci consentono di esprimere pubblicamente il
nostro dolore, ci permettono di dire il nostro addio alla presenza di
amici e dei nostri cari, ci offrono un luogo per ricordare con
dignità i nostri reciproci legami duraturi.
Alle donne che subiscono l’esperienza
dell’aborto volontario non viene mai consentito questo genere di
legame sociale. L’aborto è una morte. Per molte si tratta
di una realtà drammatica e intensa al pari di una qualsiasi
altra situazione in cui una madre patisce la perdita di un figlio nato
anni prima. Ciò che ferisce così tanto quando un bambino
muore è la consapevolezza della vita non vissuta, del potenziale
perduto, dell’esistenza interrotta. Esiste sempre un dolore
profondo e struggente quando la morte toglie dal mondo una persona
giovane. Tale pena s’intensifica maggiormente in una persona
convinta che la morte poteva essere evitata o che si ritiene
responsabile di quella morte prematura.
Maura ha vissuto la sua vita fuggendo dal dolore e
dal senso di colpa che portava nel suo cuore. Era fermamente convinta
di non meritare di vivere. Aver elaborato la propria perdita, aver dato
un nome al suo bambino, averlo riconosciuto e aver rivendicato il
proprio dolore, le ha permesso di scoprire la forza e la speranza.
Questo processo le ha consentito di scogliere i suoi sensi di colpa e
di essere in pace con ciò che le era successo. Ha chiamato il
suo angioletto Joey. Riconoscendo la vita del figlio, Maura ha trovato
la pace, l’amore, e infine un legame con il suo Creatore.
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Tratto da "Forbidden Grief: The Unspoken Pain of Abortion"
Copyright 2002 Theresa Burke and David C. Reardon
www.rachelsvineyard.org
Ringraziamo di cuore Chrisula per la traduzione.
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© 2009-2016 Monika Rodman, Vigna di Rachele/Rachel's Vineyard Ministries™. Tutti i diritti riservati.
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Introduzione -
Capitolo 1 - Capitolo 3 - - Capitolo 7 NEW!!
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